Pubblicato originariamente su Il Colophon il 1 aprile 2016.


Un viaggio tra alcune rappresentazioni nel mondo dei fumetti di Erika Marconato

Prima di entrare nel vivo permettimi di fare un piccolo patto con te.
Innanzitutto sappi che sono perfettamente consapevole della differenza tra vignetta, striscia, tavola, albo a fumetti, graphic novel e manga (se tutti questi vocaboli ti sembrano sinonimi, urge una controllata a questa pagina di Wikipedia). In questo pezzo parlerò di fumetti nel senso più ampio possibile: quando troverai “fumetti” o “fumetto” sappi che l’oggetto del discorrere sarà qualsiasi pubblicazione contenente immagini accompagnate da espressioni verbali (un po’ come succede con le classificazioni dei fumetti in biblioteca in cui è tutto sullo stesso scaffale, che sia un Martin Mystere, un Sandman o un V per Vendetta). La seconda parte dell’accordo che mi piacerebbe accettassi riguarda il mio diritto di far rientrare i fumetti nell’ambito di competenza di una rivista letteraria — quale Il Colophon è. Secondo il Dizionario Treccani la letteratura è “l’insieme delle opere affidate alla scrittura, che si propongano fini estetici”. Mi pare di sentirti: “Scrittura? Ma se sono solo disegni con due parole in croce…”. In realtà, i disegni sono il risultato finale: tutto parte dalla parola scritta. I fumetti vengono sceneggiati, esattamente come i film, e poi realizzati, esattamente come i film (non ho trovato nessun esempio in italiano, ma puoi curiosare tra questi script di fumetti in inglese per vedere quanta parte è legata alla scrittura).
Se stai continuando a leggere, presuppongo che tu abbia accettato questo patto. Proprio come fanno gli scrittori. Ebbene sì, ogni volta che leggiamo un libro (specie di narrativa) concediamo all’autore di portarci nel mondo che la sua penna dipanerà per noi: un mondo diverso da quello in cui ci svegliamo tutte le mattine. Con i fumetti la cosa diventa un pochino più difficile: la penna (o il pennino) dipingono LETTERALMENTE l’universo in cui la storia si svolge. Sia che siano posti completamente immaginari (come Wreath di Saga) oppure posti realmente esistenti (come Londra, in cui viene ambientato quasi ogni albo di Dylan Dog), lo sforzo creativo è lo stesso: tratti o disegni devono far capire al lettore dove si svolge la scena. L’impatto però è completamente diverso. Un artista che dipinge un mondo immaginario detta le proprie regole e reagiamo più o meno con “se l’ha immaginato così, sarà così” o al massimo “io lo avrei fatto diversamente”. Sottostiamo, in ogni caso, al patto segreto che abbiamo firmato. Un disegnatore che sceglie un luogo reale — e lo maneggia — ci fa sentire traditi: “Come ti permetti? Quel posto non è esattamente così!” Perché? In un ambiente dove anche gli sfondi vengono narrati con lo stesso linguaggio del resto della storia, il nostro immaginario trasforma una resa grafica in un personaggio vero e proprio. Will Eisner, da ottimo narratore, sfrutta questo accostamento inconscio e usa le sue storie (soprattutto le graphic novel) per raccontarci New York, la sua New York: i personaggi “umani” diventano secondari, pur essendo disegnati nella parte frontale delle tavole. In particolare, Dropsie Avenue, edito dai tipi di Fandango, si concentra solo sulla strada da cui la graphic novel prende il nome: uomini, donne e bambini sono solo ombre passeggere; la strada, invece, evolve, cambia, cresce.
Quanti di noi hanno vissuto a New York per poter contestare la visione di Eisner? Pochi, immagino.
Magari abbiamo più possibilità con Londra. Nel panorama dei fumetti italiani, Londra è indissolubilmente legata a Dylan Dog, una serie di uscite mensili che continuano dal 1986. Permettimi di analizzare un numero “a caso”: il 312, intitolato “Epidemia aliena”. La vignetta di apertura è un campo medio di una stradina londinese con Dylan — decentrato, sulla sinistra — che cammina verso casa, esausto e pensieroso. Sullo sfondo la Big Ben Tower. Anche se non ci fosse né la torre né il protagonista, qualcosa di questa specifica immagine (i lampioni, il muretto, il palazzo?) ci ricondurrebbe a Londra (o a come gli italiani si immaginano Londra). Per quasi tutto il fumetto viaggiamo con l’investigatore dell’incubo in un mondo parallelo, dove gli sfondi delle tavole sembrano sempre solo elementi secondari. L’apparenza inganna, dato che sono proprio le piccole differenze presenti nella Londra dell’universo parallelo a suggerire che qualcosa non va. Dopo che il canovaccio è stato sviluppato, ci troviamo di fronte all’ultima tavola: due vignette quadrate affiancate (nella prima Dylan nel suo maggiolino affianca il Westminster Palace; nella seconda si vede solo il protagonista mentre scende dall’auto) e una grande vignetta sottostante. L’ultima vignetta dell’albo è quella che ci ricorda del patto che abbiamo stretto con Gualdoni e Dell’Uomo — autore e disegnatore: loro la storia, loro l’immaginario, nostra la possibilità di accettarlo. In questa ultima vignetta, infatti, abbiamo un piano americano di Dylan Dog appoggiato ad un muro sulla sinistra e il vero protagonista della storia: Londra. Piccadilly Circus, Big Ben Tower in lontananza e, come occupante principale dell’illustrazione, la sfinge. Nel baloon leggiamo il pensiero di Dylan: “D’altronde, dove altro potrebbe essere, la sfinge, se non a Londra?” Per quanto simile, la città dell’investigatore dell’incubo è solo un riflesso di quella che si trova ad un paio di ore di volo dall’Italia. Possiamo lamentarcene, ma anche le storie dei fumetti sono frutto dell’immaginazione del/degli autore/autori.
“Ma tu stai scegliendo solo ed esclusivamente cose che dimostrino il tuo punto di vista!” Per dimostrarti che non è così, permettimi di parlarti di Vanna Vinci, conosciuta per lo più per La bambina filosofica. Nel 2013 ha realizzato per Il Piccolo di Trieste una rielaborazione fumettistica di un romanzo di Stelio Mattioni. Le varie puntate sono state raccolte dai tipi di Bao Publishing con il titolo “Il richiamo di Alma”. Gli editori hanno deciso di raccogliere, assieme alla storia originale, una sezione intitolata “appunti visivi della città di Trieste”: una raccolta di bozzetti ed acquarelli che l’autrice ha realizzato in preparazione al fumetto. Basta confrontare questo bozzetto, pubblicato nella pagina Facebook dell’autrice, con questa foto di FrankDepa per rendersi conto che la città nel fumetto è vera, reale e tangibile: si potrebbe fare un tour, alla ricerca di Alma, seguendo i passi del protagonista maschile, vedere quali luoghi ha scelto la Vinci per la sua storia. Non troveremo mai Alma, però. Anche in questo caso, il fumetto è leggermente scostato dalla realtà: è un mondo fantastico, connesso al reale, ma diverso. Anche Vanna Vinci lo sottolinea in un’intervista per fumettologica.it: “Nel momento in cui disegno un luogo, è perché in quel luogo ci sono stata, mi piace, o mi è successo qualcosa. Quindi prima di tutto è un piacere assolutamente personale, […] poi c’è la questione della luce, ma soprattutto della consistenza delle cose. […] Infine bisogna anche saper fingere”. La finzione è parte integrante della creazione e, conseguentemente, della narrazione.
I luoghi, nei fumetti, sono protagonisti. Se Zerocalcare non vivesse a Rebibbia, sarebbe lo stesso? Personalmente, non credo. Non solo perché il protagonista ha spesso l’insano desiderio di scrivere “Rebibbia regna” in giro per il mondo, ma soprattutto perché il carcere — che trasforma il tempo in attesa — permea e scolpisce la visione (e quindi la trascrizione tramite fumetti) del mondo dell’autore. Nel caso specifico di Zerocalcare, assistiamo ad un ulteriore passaggio comunicativo: i fumetti (linguaggio narrante di un luogo reale) entrano nel luogo stesso (Rebibbia) attraverso un enorme murales commissionato dalla città di Roma. Una metanarrazione al quadrato che, attraverso lo stesso autore, modifica sia l’immaginario che il reale. Il concreto sboccia nel fantastico, che influenza nuovamente la realtà. Come nel caso di Guy Fawkes. La sua storia si dipana tra il Seicento e i giorni nostri. Nel 1604 organizzò la Congiura delle polveri, un tentativo di alcuni cattolici di “riformare” il governo inglese, a maggioranza protestante, attraverso un attentato al parlamento. La congiura venne scoperta e Guy Fawkes impiccato. Questa storia è così famosa in Inghilterra da aver influenzato Alan Moore, autore di V per Vendetta. V, il protagonista del fumetto, indossa una maschera di Guy Fawkes, mentre cerca di destabilizzare il governo inglese. Il fumetto raggiunge una fama tale da essere trasformato in un film di discreto successo nel 2006. Dopo la crisi del 2008, il gruppo hacker Anonymous adotta la maschera, presente nel film e creata da Lloyd, disegnatore di V per Vendetta, quale simbolo di riconoscimento. In questo caso, se pur attraverso vari autori, la realtà ha ispirato così tanto la fantasia da diventare rappresentazione del cambiamento.
La rappresentazione è il motivo per cui, a volte, ci sentiamo traditi dagli autori dei fumetti. Pur avendo stretto anche con loro lo stesso patto che stringiamo con tutti gli scrittori, lo scostamento dalla realtà ci sembra molto più evidente quando è disegnato, piuttosto che quando è solo descritto. Le città, specie se le conosciamo, ci sembrano finte se non sono rappresentate fedelmente. Dimentichiamo che l’arte può modificare la realtà e viceversa. Tu cosa ne pensi? Hai altri fumetti (e rispettive città) da consigliarci?


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND