Pubblicato originariamente su Il Colophon il 9 giugno 2018.


Una riflessione su cosa significa scrivere oggi, a partire dalla produzione di Arundhati Roy di Erika Marconato

Scena: interno. Due poltrone marroni, una di fronte all’altra.
Intervistatore: “Come si sente all’uscita del suo nuovo romanzo? Non scrive da vent’anni…”
La frase resta in sospeso, mentre negli occhi dell’autrice passa un guizzo. Le si forma un sorriso di cortesia agli angoli delle labbra.
Roy: “Non capisco il perché di quest’affermazione. Negli ultimi due decenni ho scritto saggi, articoli e interviste sui temi che sentivo più urgenti”.
Sipario. Fine.
Perché nel 2017 è stato pubblicato dai tipi di Guanda Il ministero della suprema felicità, il secondo romanzo di Arundhati Roy. In Italia, come nel resto del mondo, questa è stata l’uscita letteraria dell’anno: tutti aspettavano da più di vent’anni che Roy decidesse di dare alle stampe un suo romanzo. E molti hanno reagito come il suddetto intervistatore: perché ci ha fatto aspettare tanto? Il suo lavoro non è fare la scrittrice? Perché non ci ha dato prima un altro romanzo da leggere?
Ma facciamo un passo indietro. Nel 1996, dopo quattro anni di gestazione, esce The God of Small Things (tradotto in italiano Il dio delle piccole cose), un romanzo semi-autobiografico, che catapulta l’autrice sotto le luci della ribalta internazionale. Nel 1997, il romanzo viene insignito del Man Booker Prize e il New York Times lo inserisce nella lista dei libri degni di nota. Pubblicato in maggio in India, per la fine di giugno case editrici di diciotto paesi diversi ne acquistano i diritti. I lettori amano la scrittura della Roy, la sensazione di realismo magico del romanzo, l’ambientazione indiana. Arundhati Roy diventa il volto della nuova India. Tutti le chiedono: “a quando il prossimo romanzo?” e lei a tutti risponde di sentirsi “creativamente esausta” e che “la scrittura richiede il suo tempo”. Nei video di alcune interviste reperibili online, si vede la tensione nel volto dell’autrice mentre cerca di non farsi strappare promesse che non può mantenere. Non sa quando scriverà il prossimo romanzo. In più, lei è una romanziera lenta: le piace passare molto tempo con i propri personaggi, ha bisogno di conoscerli bene prima di scriverne.
Nel frattempo, la nuova India, di cui Roy è il volto proprio malgrado, cambia: il subcontinente vive un paio d’anni di forte instabilità (e tensione) politica, che culminano, nel 1998, in una serie di test nucleari sotterranei, sanzionati da Stati Uniti e Giappone. L’autrice, successivamente, dichiarerà che se non avesse detto nulla a proposito, le sarebbe sembrato di essere scambiata per una sostenitrice del fenomeno. Così nasce La fine delle illusioni, un saggio caustico e gonfio di accusa nei confronti di una classe politica inetta e corrotta. Questo è solo il primo di una serie di saggi su democrazia, capitalismo, politica, India, imperialismo, guerra, ingiustizia sociale. Non tutti questi saggi e questi articoli vengono tradotti in italiano, ma, anche confrontandosi solo con le opere tradotte, è chiaro che Roy si sta ritagliando un ruolo di scrittrice diverso. Scrivere, per lei, non significa abilitare il cambiamento in maniera astratta, ma prendere posizioni concrete su problemi urgenti e immediati. Non è la prima scrittrice a farlo (basti pensare alla denuncia sociale di Dickens), nè sarà l’ultima (J. K. Rowling, ad esempio, esprime costantemente le sue opinioni su Twitter. Penso, in particolare, alla polemica nata dalla scelta di un’attrice nera per il ruolo di Hermione nella pièce teatrale Harry Potter and the Cursed Child, a cui la Rowling ha risposto in 140 caratteri: “Canon: brown eyes, frizzy hair and very clever. White skin was never specified. Rowling loves black Hermione ;*”. Traduzione: “Canone: occhi marroni, capelli crespi e molto intelligente. La pelle bianca non è mai stata specificata. Rowling ama l’Hermione nera ;*”). La scrittura diventa una piattaforma per veicolare un messaggio e il ruolo dello scrittore è scegliere con cura quale messaggio esporre. Il fatto che la romanziera Roy si dedichi anima e penna a questioni sociali, la rende meno “scrittrice”? No, la rende una “scrittrice aumentata”, in un certo senso.
La Roy, in ogni intervista sul suo nuovo romanzo, sottolinea che Il ministero della suprema felicità è a tutti gli effetti un romanzo, non un manifesto politico mascherato da romanzo. Nonostante l’impegno sociale e la produzione saggistica, l’autrice tiene all’aspetto creativo e totalmente opera di finzione del suo lavoro. Essere uno scrittore oggi, significa anche discernere — e far discernere — cos’è narrativa e cos’è risposta alla realtà. La realtà si insinua nella tua vita e nel tuo lavoro, ma nell’epoca della post verità in cui sembrano dominare le bufale e le fake news, essere uno scrittore significa tracciare i confini tra ciò che succede davvero e ciò che inventi. Anche scegliendo una forma di espressione, piuttosto che un’altra. Scrittrice aumentata, dicevamo. Le opere d’arte — intese nel senso più ampio possibile — non sono più solo quelle che intendi come tali: se sei un’artista, la tua vita è una performance. Quello che scrivi e che dici — e come lo esprimi — hanno un peso diverso. Fino all’estremo di Salvatore Iaconesi e Oriana Persico con La cura. Nel 2012 a Iaconesi viene diagnosticato un tumore al cervello. Lui è un hacker e decide di “lasciare l’ospedale per avviare La cura, una performance globale per riappropriarsi del proprio corpo e della propria identità creando una cura partecipativa open source per il cancro”. Ci scrive un libro, costruisce un sito web e condivide l’esperienza con migliaia di sconosciuti. La malattia — e la sua risoluzione — smettono di essere una questione privata. Se per Arundhati Roy è il mondo ad inserirsi nel processo creativo, attraverso la necessità di avere un impatto su cose specifiche e concrete, per Iaconesi e Persico è l’esperienza personale ad innestare il processo creativo pubblico e sociale, sempre con la necessità, però, di avere un impatto su una cosa specifica e concreta. Due diverse sfaccettature sul mestiere della scrittura. Gli autori de La cura hanno applicato competenze e sensibilità sviluppate prima dell’atto della scrittura. Anche se non è così lampante, è lo stesso anche per Roy. Laureata in architettura, in una recente intervista ha dichiarato che per lei scrivere romanzi richiede molto tempo perché vede molto chiaramente la struttura portante e le fondamenta della storia, ma i personaggi ha bisogno di frequentarli, come a dire prima i muri, poi la decorazione d’interni.
Tornando alla massiccia produzione di saggistica della Roy, viene da chiedersi se essere scrittori significhi: a) avere un’opinione su tutto e b) sapere qualsiasi cosa. La risposta, ovviamente, è no, non è assolutamente necessario né avere opinioni a bizzeffe, né essere informati su tutto. La musa della Roy, tuttavia, è capricciosa e la porta a scrivere di argomenti apparentemente molto diversi tra loro. In un’intervista per Waterstones (una delle maggiori catene di librerie inglese), la Roy ha dichiarato che, nonostante le apparenze, tutta la sua scrittura riguarda le ingiustizie perché qualcosa dentro di lei reagisce in modo molto forte, se posto di fronte all’ingiustizia. Come possono un romanzo semi-autobiografico, una sconfinata raccolta di saggi e articoli e un romanzo sugli aspetti più violenti dell’India racchiudersi tutti sotto l’ombrello “ingiustizia”? La risposta non è semplice ed è nascosta tra le parole scritte (e dette) dall’autrice. Cercare una risposta a questa domanda fornisce un fil rouge attraverso cui interpretare la produzione della scrittrice.
Questo ci porta alla questione successiva. Cosa è lecito considerare parte della produzione di uno scrittore? Nel caso di Roy, la risposta dell’intervistatore con cui abbiamo aperto questo pezzo è, chiaramente, solo i suoi romanzi. Noi abbiamo allargato lo sguardo ai suoi articoli e ai suoi saggi. Ma che dire delle interviste a cui ha risposto? E delle interviste in cui l’autrice rivestiva il ruolo di intervistatrice? E le lectio magistralis? E le conferenze? Roy non è su Twitter, ma se lo fosse come considereremmo i suoi tweet? Ognuno di questi modi per veicolare un messaggio pone una questione a sè stante, la cui risposta non è così cristallina come si potrebbe pensare. Qualche esempio? Per le interviste, pensa di escludere Interviste con la storia dalla produzione di Oriana Fallaci o Cose che non si possono dire da quella della Roy. Se non consideriamo parte della produzione di uno scrittore le lectio magistralis, non avremmo mai avuto Quando siete felici, fateci caso di Kurt Vonnegut. I tweet di tutti i presidenti degli Stati Uniti d’America vengono conservati alla biblioteca del Congresso, in quanto strumenti fondamentali di comunicazione politica. Forse la questione riguarda più il mestiere dell’archivista che dello scrittore. Forse no.
In conclusione, come dimostra l’esperienza della Roy, ci troviamo di fronte ad un cambio di paradigma piuttosto consistente: anche per gli scrittori (la cui opera è pubblica, ma la cui faccia spesso no) sembra assottigliarsi sempre di più il confine tra pubblico e privato. La scrittura sembra diventare un mestiere pubblico, in cui dividere l’opera dall’autore diventa sempre più complesso. Così come diventa complesso definire cos’è il frutto del lavoro di uno scrittore.
Quindi, perché la Roy non ci ha dato prima un nuovo romanzo?
Perché il suo lavoro è fare la scrittrice, non la romanziera.


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND