Costantemente alla ricerca. Porto con me la voglia di imparare

Categoria: Scritti altrove Pagina 6 di 12

ELEMENTARE, COWBOY di Steve Hockensmith, CasaSirio Editore

Pubblicato originariamente su Il Colophon il 6 agosto 2017.


Immagina di trovarti nel Montana. L’anno è il 1892. Immagina anche di trovarti di fronte ad un paio di cowboy, capelli rossi, Colt nel cinturone, muscoli “quanto a stazza sono solo leggermente più piccolo di una casa di medie dimensioni”, cavallo e stivali. Hai inserito Sherlock Holmes nel quadro? Probabilmente no, ma Gustav e Otto Amlingmeyer , ossia Old Red e Big Red lo conoscono perfettamente: ne hanno studiato metodi e storie, anche se nel selvaggio West “probabilmente anche la notizia del Secondo Avvento arriverebbe via telegrafo con una settimana di ritardo”.
“Molte persone credono in Dio. Gustav crede in Sherlock Holmes” e se al ranch dove presta servizio, il Dollaro Barrato, succedono cose fuori dall’ordinario, Gustav comincia ad indagare, seguendo le tracce come un Apache e applicando il metodo del celebre detective inglese. Mentre ad Otto è affidato il compito di narrare sia le scoperte del fratello, che i vari omicidi che si susseguono al Dollaro Barrato, come un novello Watson.
“Il sole del mattino illuminò l’interno, rivelando quella che sarebbe potuta essere una visione davvero nauseante se il cadavere-frittella di Perkins di qualche giorno prima non mi avesse già ben corazzato contro le esibizioni disordinate di resti umani. Sopra al buco per la cacca c’era Boudreaux, l’albino, che aveva acquistato un po’ di colore: del rosso scuro, a forma di cerchio, proprio in mezzo alla fronte. Aveva gli occhi giallastri rivolti verso l’alto. Colpo-in-canna fu il primo a constatare l’ovvio. — Beh, che sia dannato — disse senza particolare turbamento o tristezza — Qualcuno ha sparato a Spavento”.
Old Red e Big Red sono tra i più improbabili emulatori di Holmes e Watson, eppure il romanzo, non solo funziona, tiene incollato il lettore fino all’ultima pagina — o alla soluzione del caso. I modi inglesi sono relegati ai padroni del Dollaro Barrato: i fratelli Amlingmeyer sono bruschi, secchi, silenziosi e acuti, hanno modi da cowboy, vestiti da mandriani e svolgono lavori da ranch. Hockensmith non intende vendere al lettore una versione Wild West di Sherlock Holmes: il punto non è come agirebbe il detective nel Montana. Il punto è come un paio di cowboy di mente acuta, ma di scarsa cultura, possono sfruttare quello che conoscono per mettere a frutti i metodi di Sherlock Holmes. Questo giallo-western è una lettura piacevole frutto di una scrittura ponderata e di un’onestà profonda nei confronti dei personaggi.
La commistione tra il West e la nobiltà inglese, permette all’autore di creare un mondo in cui non funzionano né i metodi degli sceriffi (più interessati ad una buona cena, che alla soluzione dei loro casi) né i metodi classici di Holmes. C’è bisogno delle competenze di un cowboy e del metodo deduttivo di Holmes. Nessuna delle due cose funziona da sola. Il romanzo funziona perché i cowboy sono cowboy, i fratelli sono fratelli (con Old Red che trascina inevitabilmente Big Red nei guai), il conte e la sua corte di nobili sono fuori posto “-Adesso, tanto per cominciare — disse Old Red — guardate bene il signor Edwards. Obbedimmo, ma l’unica cosa che c’era da vedere era un figlio di puttana sudato e abbastanza stupido da mettersi un completo di tweed in una calda giornata di maggio del Montana”. Gli omicidi non sono frutti di duelli, al Dollaro Barrato non vieni ucciso perché hai rubato il pezzato di qualcuno. Al ranch nel Montana vieni ucciso per delle complicate faccende cominciate in Inghilterra, intrecciate con altre complicate faccende del selvaggio West.
La meravigliosa copertina di Chiara Mazzotta sarà di sicuro ciò che inizialmente attirerà verso questo libro. L’omaggio ad Arthur Conan Doyle farà restare gli amanti dei gialli. L’ambientazione catturerà gli amanti dei western. Old Red e Big Red lo renderanno perfetto per moltissimi altri lettori, che non avrebbero mai creduto di poter leggere un libro di questi generi ed apprezzarlo.


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND

ANCHE NOI L’AMERICA di Cristina Henríquez, NNEditore

Pubblicato originariamente su Il Colophon il 6 agosto 2017.


Maribel è quel tipo di ragazza messicana che si può definire solo bellissima. Nonostante i suoi quindici anni, fa girare la testa a molti degli uomini con cui entra in contatto, peccato per quel piccolo problema al cervello: dopo una brutta caduta da una scala a pioli — di cui sia la madre Alma che il padre Arturo si ritengono responsabili — Maribel subisce un danno cerebrale. Resta bellissima, ma diversa. La famiglia Rivera decide che il Delaware è la soluzione al problema: lì c’è una scuola che permetterà a Maribel di tornare quella di sempre e di ricevere un’educazione adeguata alle sue esigenze. Aiutare la figlia, significa rinunciare a tutto: la propria casa, i propri risparmi, la propria terra, perfino l’intimità di coppia. Se in Messico i Rivera erano delle persone felici e di moderato successo, quando arrivano negli Stati Uniti si devono scontrare con la realtà: i film, le riviste e le promesse sono — perlopiù — solo volantini pubblicitari. Il lavoro è precario (e piuttosto schifoso), la scuola non accetta Maribel, la lingua è difficile da imparare, la casa in cui si sono trasferiti una topaia. Nonostante i Rivera siano immigrati regolari, sono sempre trattati come delinquenti.
Quando Mayor (vicino di casa panamense) incontra Maribel non sa nulla dell’incidente, dei problemi e delle difficoltà di Maribel: vede solo una bellissima coetanea. Spinto dall’amicizia tra sua madre e Alma, Mayor comincia a frequentare la protagonista, fino ad innamorarsene.
Anche noi l’America è un romanzo a cui si possono attribuire molti aggettivi: delicato (come solo certe storie d’amore adolescenziale sanno essere), disperato (come sa essere solo un padre che perde il lavoro umiliante che permette a lui e alla sua famiglia di essere immigrati regolari), sfaccettato (come gli abitanti del palazzo in cui si trovano a vivere Maribel e la sua famiglia, tutti latini, tutti provenienti da paesi diversi). Gli si possono attribuire anche molti altri aggettivi: politico, sociale, tenero, spietato. Nessuno di questi però descrive a pieno la scrittura della Henríquez o questo romanzo corale. Attraverso la meravigliosa traduzione di Roberto Serrai, il lettore è trasportato in una fantastica narrazione di storie ordinarie di migrazione, ma, soprattutto, storie di vita ordinaria.
Mayor, Alma e tutti gli abitanti latini del loro condominio non sono materiale da prima pagina: fanno vite normali, hanno ambizioni comuni (come possedere un automobile), affrontano difficoltà comuni a molti altri esseri umani. Eppure il lettore si trova ad affezionarsi, a fare il tifo, a sperare che tutto vada bene per loro. Sebbene aleggi per gran parte del romanzo un senso di disfatta inevitabile, il lettore spera fino alla fine di sbagliarsi, spera che per questi personaggi il sogno americano sia concreto e raggiungibile, spera che gli Stati Uniti diventino nei confronti di questi personaggi la grande terra che proclamano di essere.
“Noi siamo gli americani invisibili, quelli che a nessuno importa nemmeno di conoscere perché gli hanno detto di avere paura di noi e perché forse, se facessero lo sforzo di conoscerci, si renderebbero conto che non siamo poi così cattivi, e forse addirittura che siamo molto simili a loro. E chi odierebbero, allora?”.
Più che personaggi, Cristina Henríquez sceglie di porci di fronte a delle persone, simili al padre immigrato a cui l’autrice ha dedicato il romanzo. Persone complesse, fastidiose, stanche, felici, sconfitte, forti. Variegate, come le storie di tutti gli americani sconosciuti che abitano gli Stati Uniti. Oltre ad essere il titolo originale del romanzo, The unknown americans è anche un progetto su Tumblr, curato dall’autrice, che raccoglie moltissime storie di americani immigrati — non solo dal sud America. Come questo romanzo, una vetrina per tutte le storie normali e ordinarie, di successo o meno, che nessuno sceglie di raccontare.
L’unica che non ha una voce è proprio Maribel: straniera comunque. Strana comunque. Diversa comunque.


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND

I LIBRI PER RAGAZZI NON ESISTONO

Pubblicato originariamente su Il Colophon il 9 giugno 2017.


Perché pensare a una letteratura solo per i più giovani è una trappola per l’intelligenza (e per il mercato) di Erika Marconato

I libri per ragazzi non esistono. Esistono volumi che si trovano sugli scaffali dedicati ai lettori più giovani. Esistono storie che parlano di ragazzi. Esistono narrazioni edificanti, educative e edeniche. I volumi, però, sono infidi e si spostano, finendo chissà come negli scaffali degli adulti; le storie di ragazzi piacciono molto anche a chi è uscito dall’adolescenza da un po’; le narrazioni edificanti raramente sono per ragazzi (basti pensare alle terrificanti storie di Dahl o al ribelle conte Cosimo Piovasco di Rondò).
Esiste un mercato editoriale per l’infanzia, in cui i giovani lettori vengono incasellati come delle anonime marketing personae: se hai tra i 4 e i 10 anni e vuoi fare il calciatore, questo prodotto è per te. Sebbene questo sia un buon modo per vendere gli oggetti libri, sia i ragazzi che le storie mal si adattano a queste scatole fittizie. Le storie finiscono in mano agli adulti, i ragazzi scelgono in base a misteriosi criteri (spesso legati alla domanda “quanto si arrabbierà la mia maestra se mi troverà con un libro che parla di cacca?”).
I libri per ragazzi non esistono perché sono duttili, si trasformano volentieri. Si trasformano in brani da antologia (che privano per sempre il giovane lettore della gioia del finale), si trasformano in favole della buona notte (attraverso la magia della lettura ad alta voce), si trasformano in aneliti adulti (per cui, Calvino è un grande autore quindi va proposto per i gruppi di lettura frequentati da ultra cinquantenni).
Le storie pensate per i ragazzi formano il loro immaginario adulto. Per anni ho cercato di ritrovare la descrizione di una cena a base di insetti perfettamente impiattati contenuta in una delle mie antologie di bambina — perduta o dimenticata chissà dove. Quella breve descrizione fu il mio primo incontro con Il barone rampante, ma ancora non lo sapevo. Lo scoprii lo scorso anno quando il volume — nella sua versione integrale — fu proposto nel gruppo di lettura che frequento. Per decenni quella cena ha covato dentro di me, facendomi sviluppare un certo gusto letterario: l’immagine della famiglia intorno al tavolo era così vivida, e gli insetti così inaspettati, da aver piantato per sempre il gusto per la (apparente) contraddizione letteraria. Ritrovare Battista e la sua cena è stato come innamorarsi: l’adulta in me ha rivisto la bambina con in grembo l’antologia e le ha sorriso. E il sorriso è stato ricambiato. Calvino aveva fatto risuonare le corde dell’adulta, quanto quelle della bambina.
Analizzando i libri rivolti ai ragazzi si capisce facilmente il perché: questi libri sono scritti da autori adulti che conservano una scintilla d’infanzia. Non nello stereotipo buonista della gioventù (per cui i bambini sono tutti felici e spensierati), ma nella complessa realtà in cui i ragazzi fuggono dalle proprie difficoltà grazie all’immaginazione, raccontandosi storie, inventando situazioni o semplicemente sfruttando le narrazioni fatte da altri (attraverso libri, videogiochi o film). Molti scrittori per ragazzi si trovano nella paradossale situazione di essere idolatrati da orde di adulti (basti pensare ai moltissimi Potteriani — fan di Harry Potter — ben sopra i trenta o la marea di registi affascinati da Verne). Il potenziale creativo viene liberato non solo dalle forme classiche di fruizione delle storie (lettura ad alta voce, lettura solitaria, discussione in gruppo), ma continua a perpetuarsi in varie forme: film, canzoni, parchi a tema ne sono solo alcuni esempi. La scrittura per ragazzi si rivela decisiva anche per gli adulti (perché sono degli adulti che si occupano di creare nuove narrazioni e delle nuove forme di fruizioni), non solo per i bambini che sono stati. Penso ad esempio agli scritti di Salgari, reinterpretati musicalmente da Ludovico Einaudi nell’album Salgari: composizioni di musica classica lontanissime dalle proposte dello Zecchino d’oro, musica per adulti, opera prima, ma derivata. Un perpetuarsi di creatività, sicuramente non anticipato dallo scrittore “per ragazzi”.
Come può un autore per ragazzi essere rilevante per generazioni diverse?
Come è possibile che il potenziale creativo di una storia perduri nel tempo?
Come mai alcuni scrittori finiscono per influenzare altre arti, altri campi?
La risposta è da ricercare nella natura stessa della letteratura per ragazzi. Finora ci siamo concentrati sulla potenza espressiva, sulla capacità di formare gli immaginari futuri dei lettori. Ma i libri per ragazzi non sono solo questo.
I libri per ragazzi sono intrinsecamente rivolti anche agli adulti. Non agli adulti del futuro, proprio alle persone che sono adulte quando si trovano il libro tra le mani. Lo scrittore per ragazzi deve continuamente confrontarsi con la proiezione di sé che si realizza nei lettori adulti: non può dimenticare che le sue parole saranno oggetto di attenzione anche di altri adulti come lui (i genitori leggeranno il libro ad alta voce ai figli; insegnanti lo analizzeranno per valutarne l’adeguatezza; librai e libraie decideranno se metterlo in vetrina; bibliotecari/e ne faranno conoscenza ben prima dei giovani lettori a cui sono rivolti. Senza contare i vari editori che decideranno di promuoverlo. Continuando con le giurie di premi letterari che lo scrittore aspira a vincere, per finire agli adulti che consapevolmente sceglieranno di leggere libri per ragazzi).
Lo scrittore che si confronta con questa schiera di potenziali lettori “secondari” non potrà dimenticarsi di inserire qualcosa di rilevante anche per loro. Roald Dahl, ad esempio, cattura i bambini con il realismo magico, ma intrattiene gli adulti con vari escamotage: dalle accuse più o meno velate ad alcuni modi di essere adulti (gli antagonisti nei romanzi di Dahl sono spesso figure in cui l’essere adulti coincide con la frustrazione o con l’essere bulli in quanto più potenti) alle strizzate d’occhio comprensibili solo se adulti (la dualità delle brave persone di Danny il campione del mondo ne è un esempio lampante). Tenendo la conversazione tra questi due binari — fanciullezza ed età adulta — Dahl e molti altri autori categorizzati per ragazzi riescono nella difficile impresa di restare rilevanti nel tempo.
Diffidare delle soluzioni di comodo è un’altra di quelle imprese che permettono ad una storia di essere rilevante per il lettore bambino/adulto. Ne è un esempio Rodari. Da piccola una delle mie storie preferite era La freccia azzurra: ho sempre trovato geniale come i giochi trovassero una propria volontà per ricompensare i bambini meritevoli, ma poveri. Da adulta, non posso esimermi dal trovare geniale la figura della Befana: “La Befana era una vecchia signora molto distinta e nobile: era quasi baronessa.
– La gente — borbotta qualche volta fra sé — mi chiama semplicemente «la Befana», e io non protesto, perché bisogna pure compatire gli ignoranti. Ma sono quasi baronessa: le persone per bene lo sanno”. In quanto adulta trovo l’idea fresca e contemporanea, da bambina era solo un dato di fatto — in questo universo le regole erano un po’ diverse, la Befana non aveva le scarpe rotte, ma un pessimo carattere. Continuando con Rodari è celeberrima la sua posizione sul “l’ago di Garda”: “Se un bambino scrive nel suo quaderno «l’ago di Garda», ho la scelta tra correggere l’errore con un segnaccio rosso o blu, o seguirne l’ardito suggerimento e scrivere la storia e la geografia di questo «ago» importantissimo, segnato anche nella carta d’Italia. La Luna si specchierà sulla punta o nella cruna? Si pungerà il naso?”. La grammatica della fantasia diventa un importante manuale di scrittura: l’adulto non può non confrontarsi con questa bizzarra grammatica e uscirne indenne. L’autore che adotta soluzioni facili e immediate si sentirà messo alla gogna, quasi fosse l’assassino della creatività. Lo scrittore o la scrittrice fantasiosi si sentiranno comunque messi in discussione (già li immagino “Starò facendo abbastanza? Le regole che infrango saranno quelle giuste?” e mille altre domande suscitate dalla scrittura di Rodari).
I vari piani narrativi sono un altro degli strumenti a disposizione dello scrittore per ragazzi, che voglia relazionarsi anche con il suo pubblico adulto. Penso, solo a titolo di esempio, a Il mondo di Sofia di Jostein Gaarder. Se da una parte la protagonista è una quattordicenne e la storia è collocabile nella categoria avventura — che spesso viene riservata a lettori più giovani; da un altro punto di vista, il romanzo è una breve introduzione alla materia filosofica — spesso riservata agli adulti o agli adolescenti, sicuramente non ai ragazzi. Sfruttare entrambi gli aspetti permette a Gaarder di ampliare il suo pubblico: gli adulti apprezzeranno l’originalità dell’esposizione, i lettori più giovani l’aspetto fantastico e di formazione.
Tornando al libro come oggetto per il mercato, individuare un pubblico di riferimento è fondamentale per le vendite, ma non basta. Così come non bastano le antologie. Così come non bastano le versioni semplificate per ragazzi. L’oggetto libro, per resistere alla prova del tempo, deve tenere conto anche dei “lettori secondari”: gli adulti. Sia i grandi in cui si trasformeranno i ragazzi-target, sia quelli che incrociano il testo con gli occhi da adulti per la prima volta. Dimenticarsi di queste categorie è un errore che porta all’insulto per l’intelligenza del lettore — sia esso grande o piccino — e riduce gli scrittori alla categoria “mah, è SOLO per ragazzi!”.


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND

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