A seconda di come interpreti il “successo”, quella di #CivicHackingIT è una newsletter che andava molto bene o molto male.

Molto bene perché abbiamo avuto un aumento costante degli iscritti, il tasso di apertura è sempre stato ottimo (ogni singolo numero aveva un tasso di apertura sopra il 60%) e in più di tre anni abbiamo avuto solo un paio di disiscrizioni.

Molto male perché, nonostante fossero molto affezionati, i nostri lettori sono pochi (la nostra è una nicchia decisamente piccola), non abbiamo mai trovato un modo per renderla un lavoro – o quanto meno sostenibile – e non siamo stati in grado di farla uscire dalla nostra bolla.

Comunque la vedi, io e Matteo abbiamo deciso che è il momento di chiuderla, almeno nella forma che ha avuto fino ad ora.

Perché chiudere un buon prodotto editoriale?

Non c’è dubbio che #CivicHackingIT sia un buon prodotto editoriale: in particolare sulla newsletter, diverse persone ci hanno tenuto, negli anni, a farci sapere che era un lavoro ben fatto, che la consideravano una fonte preziosa e che, più in generale, la leggevano volentieri. Alcune di queste persone si sono spinte oltre: hanno deciso di condividere con noi alcune delle loro risorse (sia sotto forma di conoscenze, che di denaro) per aiutarci a far progredire la newsletter. Quindi, perché chiuderla?

Io e Matteo, ovviamente, abbiamo motivazioni diverse.  Lui ha raccontato le sue in un pezzo sul suo blog. Le mie sono principalmente sei:

  1. dover continuamente sottolineare il mio ruolo nel progetto mi sfinisce;
  2. oltre alla newsletter, abbiamo fatto partire troppe cose (Medium e la scrittura del libro sono solo due aspetti che abbiamo reso pubblici, ma ce ne sono ovviamente altri);
  3. non siamo riusciti a trovare il modo per renderla sostenibile;
  4. alcune realtà del settore hanno avuto un atteggiamento estremamente predatorio nei confronti del progetto;
  5. ho la sensazione che il civic hacking, e l’attivismo digitale in generale, sia sempre meno rilevante a livello globale.

Ognuno di questi punti merita qualche parola in più (e che io ti racconti cosa ho imparato nonostante tutto), quindi…

Del mio ruolo (o fanculo ai bias)

Se avessi un paio di euro per tutte le volte che qualcuno ha detto o insinuato che #CivicHackingIT fosse un progetto solo o principalmente di Matteo, la newsletter potrebbe andare avanti per svariati anni.

Si va da cose più sottili (“mi piace molto quando Matteo scrive…”), a cose decisamente più palesi (in una telefonata – la prima comunicazione in cui ero coinvolta riguardo a un progetto – mi è stato detto “ah, che peccato che hai già preso altri impegni!”. Il che, in sé, non è grave, ma parlare solo con Matteo e poi stupirsi del fatto che io potrei avere altro da fare, sì). È successo così spesso che ha cominciato a notarlo anche Matteo.

Anche quando non sono stata trattata come un accessorio del mio compagno di avventure, mi è stato chiesto di dimostrare che contribuivo al progetto: “ah, ma quindi scrivi tu?”, “di certo però i link li sceglie Matteo”, “ah, ma hai scritto anche i numeri che non parlano di donne?” e via cantando.

Né io né Matteo abbiamo voluto mai rendere pubblico chi faceva cosa nello specifico (sono una smemorata, come dimostra il post che ho linkato poi): siamo un team, #CivicHackingIT c’è perché entrambi ci dedichiamo energie e tempo. Proprio per questo, Matteo è sempre stato più che attento a dare credito al mio contributo pratico e intellettuale al progetto. Sì, anche intellettuale: una certa visione del civic hacking che portiamo avanti viene da alcune riflessione sulla semiotica e sulla riproducibilità legata alla tecnica che hanno le loro radici in alcuni corsi che ho fatto all’università (ben prima di conoscere Matteo), alcuni esempi di rapporti virtuosi con le Amministrazioni Pubbliche vengono dalla mia personale ossessione con le biblioteche, l’idea che il civic hacking non sia solo per tecnici – e la conseguente ricerca di esempi a riguardo – è nata perché io non sono informatica, l’esigenza di raccontare esempi concreti è frutto della mia voglia di dare pacche sulle spalle alle persone che fanno cose che mi interessano. Molto altro di quello che abbiamo scritto è frutto di discussioni e confronti, per cui è difficile sbrogliare la matassa, ma non siamo in una situazione di mente e scrivana.

Insomma, per farla breve, dover continuamente affermare e chiarire il mio ruolo, il mio contributo e la mia legittimità mi (ha) affatica(ta) terribilmente.

Cose che ho imparato (e possono essere utili):
  • creare strumenti per comunicare con entrambi (nel caso specifico, una mail diversa da quelle personali) non risolve il problema, ma almeno lo solleva: sia io che Matteo abbiamo sempre usato quella per le comunicazioni che riguardavano #CivicHackingIT, indipendentemente da qual era il primo punto di contatto (la sua mail diretta o la mia);
  • per evitare il 2×1 rifiutarsi di partecipare a eventi, conferenze o progetti in cui non si è coinvolti espressamente (per quanto riguarda io e l’altro co-fondatore di #CivicHackingIT, internamente abbiamo sempre condiviso calendari e impegni, ma il fatto che tra noi due ci fosse una buona comunicazione non significa che io fossi coinvolta direttamente negli eventi. La cosa funziona anche da parte mia: ad esempio, per il WordCamp di Torino io ho mandato la candidatura e il talk l’ho fatto e preparato io; Matteo sapeva che io avevo quell’impegno, mi ha aiutata con delle cose “gestionali” – tipo la forma delle slide – ed è stato il mio primo pubblico, ma non si aspettava di dover salire sul palco con me, né che l’organizzazione lo considerasse un relatore);
  • anche se all’esterno non è chiara la propria posizione, all’interno del team deve essere cristallina (per caso sono capitata nel racconto di Nandini Jammi e la sua esperienza con Sleeping Giants e sono rimasta agghiacciata) e documentata durante tutto il processo (noi abbiamo scelto Trello, una chat Telegram e un paio di cose di carta).

Troppe troppe cose

Quando io e Matteo abbiamo lanciato l’idea di #CivicHackingIT eravamo entusiasti e pronti all’azione: per questo ci abbiamo messo una newsletter, un libro, un blog, un sito web, la disponibilità a partecipare a eventi e un altro paio di cose che – per la nostra sanità mentale – non sono mai state rese pubbliche.

Siamo stati degli stolti!

Cioè, abbiamo fatto bene, ma avremmo potuto affrontare le cose in modo un po’ diverso (per esempio, tenendo conto che tutto ha bisogno di tempo dietro le quinte per gli aspetti gestionali). Non che mi sia pentita (nemmeno Matteo) delle scelte, ma abbiamo avuto più di qualche discussione riguardo al fatto che eravamo troppo carichi di lavoro e stavamo lasciando indietro alcune parti che per noi erano fondamentali.

Cose che ho imparato (e possono essere utili):
  • nel tempo che metti in conto per la gestione dei progetti, riserva circa il 25-30% per gli aspetti gestionali (calendari editoriali, riunioni per fare il punto sulle attività svolte, mail…);
  • non c’è niente di male ad avere piani ambiziosi. Non c’è nemmeno niente di male a lavorare senza rendere pubblico tutto quello che si fa;
  • se ti stai per lanciare in un progetto multi canale e multi sfaccettato, sii molto onesta sulle cose prioritarie. E la cosa più importante di tutte:

Lavoro meglio quando sono pagata

Tornassi indietro, insisterei molto di più sulla sostenibilità finanziaria prima di rendere pubblica qualsiasi cosa. Uno degli errori più gravi che abbiamo fatto con questo progetto è stato non riuscire a trovare un modo per renderlo sostenibile. Per me è (ed è sempre stato) estremamente frustrante lavorare gratis, indipendentemente dalla mansione. In un progetto come questo, avrei dovuto saperlo che sarei arrivata al punto di non voler fare più nulla perché mi sentivo “sfruttata”. (Questo non significa che io non sia fiera e orgogliosa di quello che io e Matteo abbiamo fatto con #CivicHackingIT.)

Come ho già detto, alcune persone hanno deciso di farci una donazione libera: quando succedeva, anche se le cifre erano modeste, mi aiutava a non sentirmi nel vuoto cosmico e a dire al mio critico interiore “vedi che quello che faccio ha un valore?”.

Durante l’estate abbiamo ragionato più concretamente su questo aspetto: abbiamo valutato varie piattaforme di sostegno continuativo (tipo Patreon) e le abbiamo confrontate con la possibilità di fare un crowdfunding. In entrambi i casi il problema è che la nostra base è troppo piccola: abbiamo un numero di iscritti troppo basso per raggiungere una cifra che renda la newsletter sostenibile (è proprio una questione di numeri, lo spiega bene l’autrice di Storie della buonanotte per bambine ribelli). Avremmo dovuto concentrarci sull’aumentarli? Probabile.

Cose che ho imparato (e possono essere utili):
  • ho il vezzo intellettuale di essere pagata, quindi per tutti i progetti futuri ho bisogno che la sostenibilità sia molto in alto tra le priorità. Meglio fare meno prodotti e renderli fattibili, piuttosto che tanti non sostenibili;
  • ci sono cose che faccio gratis, ma, per non essere frustranti, devono richiedermi poco impegno;
  • dopo un po’ mi stufo, la sostenibilità deve essere anche temporale.

In che senso mi vuoi come esperta, ma non mi paghi neanche i biglietti del treno?

Questa cosa è successa davvero.

Stai sgranando gli occhi?

Figurati io.

Anche se non avevamo pianificato troppo come guadagnare dalla newsletter, una delle cose che ci eravamo detti era che essere relatori agli eventi poteva fornirci un minimo di soldi per alcune spese vive (hosting del sito, pagare alcune funzionalità premium dei servizi che usiamo per la newsletter tipo MailChimp o cose di questo genere). Che illusi!

Predare vuol dire rapinare, razziare, saccheggiare e quando parlo di atteggiamento predatorio di alcune aziende del settore, parlo di:

  • nota azienda che organizza eventi che ci invita come relatori (facendoci anche una certa pressione) e si rifiuta di pagarci i biglietti del treno;
  • nota pubblicazione che ci chiede un pezzo (ovviamente senza pagarci) per un loro numero e lo inserisce – senza consultarci – nel sito web perché “era tanto interessante”. Sito in cui ci sono monetizzazioni di vario tipo;
  • organizzatori di eventi che, a seguito di una nostra specifica richiesta di compenso, ci rispondono “eh, ma è un evento pilota, non c’è budget”;
  • organizzatori di eventi che ci chiedono di fare una conferenza e durante il giorno dell’incontro scopriamo di essere almeno in altri quattro eventi a nostra insaputa “visto che tanto eravate qui”;
  • eventi che ostacolano con vari espedienti i momenti di confronto informale con altri relatori.

Tutte queste cose vanno sotto il grande ombrellone di “fatti spremere, senza avere niente in cambio”. Non parlo solo di denaro (anche se anche quello ha la sua importanza). E se non è predatorio questo, non so cosa lo sia.

Paradossalmente, ho ricevuto di più da eventi di comunità in cui mi sono proposta, che da eventi in cui sono stata invitata, anche semplicemente considerando le opportunità di conoscere e creare relazioni con altri esperti.

La ciliegina sulla torta è quando ripenso a quella volta che sono entrata per caso nell’organizzazione del Piccolo Festival della Letteratura di Bassano del Grappa. Si trattava di un piccolissimo festival in cui si organizzavano presentazioni pubbliche con gli autori per un paio di giorni. La primissima cosa che era messa a budget era il gettone e i costi vivi per gli autori (viaggio e alloggio). Un gruppo di quindici volontari sotto i trent’anni che aveva come priorità assicurarsi che gli esperti venissero pagati. Non un’azienda con svariati dipendenti, non gente che organizzava eventi per lavoro.

Cose che ho imparato (e possono essere utili):
  • chiedere SEMPRE di essere pagati (e di avere il rimborso delle spese): è incredibile cosa le aziende e chi organizza eventi si “dimentica” di dirti – ben felice di non dover sborsare soldi;
  • fare attenzione ai predatori e non dare loro più di quello che io valuto sufficiente (che dovrebbe essere niente, ma come sappiamo tutti non sempre è possibile);
  • i predatori sono vampiri: ti dissanguano le energie, ma per loro le tue energie e competenze sono l’elisir di lunga vita. Tu ci perdi comunque, anche se non muori.

Che sia passato di moda?

Il civic hacking non è mai stato un argomento per le masse. Basta pensare a quanta gente conosce Wikipedia e quanta, invece, ha sentito parlare di civic hacking. Non ci siamo mai fatti illusioni su questo. Però, rispetto a qualche anno fa, è abbastanza chiaro che, anche a livello mondiale, il civic hacking sta vivendo una fase discendente.

Matteo, nel post gemello che ha scritto per la chiusura della newsletter, individua una risposta nel declino della democrazia. Io sono d’accordo in parte: a  livello emotivo personale, dover continuamente rielaborare uscite e sparate di questo o quel personaggio politico mi fa sentire sempre di più un’aliena, aumenta il mio grado di ansia quotidiana e mi fa venire ogni giorno di più voglia di scappare su Marte. A livello di sistema, basta confrontare il numero di risultati di un motore di ricerca o di un social network per la stringa “civic AND hacking” rispetto ai risultati di qualche anno fa per rendersi conto che la nicchia si è fatta più piccola. Mettici anche che alcune realtà storiche di attivismo digitale stanno chiudendo i battenti (tipo la Sunlight Foundation ha chiuso dopo quindici anni) e capisci perché ho la sensazione che questa particolare nicchia mi sembri quasi irrilevante (almeno a livello mediatico).

Il mio goal non è mai stato coprire le novità: sono convinta che ci sia rilevanza anche nel lasciare decantare le cose, nel recuperare le riflessioni e nel fare collegamenti tra passato e presente (altrimenti si lavora solo di reazione e non è la cosa migliore da fare). La rincorsa all’ultima dichiarazione o all’ultimo scintillante ritrovato della tecnica non è il mio mestiere, non è la cosa che mi interessa (per esempio, in altri ambiti che mi porto nel cuore – tipo i romanzi – non leggo quasi mai le ultime uscite). Fare un lavoro un po’ da archeologa digitale è molto più utile: mi permette di partire da qualcosa, non di sviluppare il pensiero da zero e, anche, di vedere – per differenza – cosa ha funzionato e cosa no. Detto questo, però, non mi piace l’idea di scavare per scavare: per me, il passato ha senso se mi aiuta a capire meglio il presente o a riflettere sulle possibilità del futuro, non mi piace la storia per la storia.

Cose che ho imparato:
  • le nicchie piccole vanno bene, ma bisogno essere realisti anche sulla rilevanza in generale;
  • non sono nostalgica dei bei tempi andati (anzi, penso che sia la cosa più inutile che si possa essere).

Quindi adesso?

La newsletter va in pensione (almeno per ora e con la forma che ha avuto fino ad oggi). Nonostante questo, se vuoi darci un riscontro su quello che abbiamo fatto in questi anni o salutarci, puoi mandarci una mail a civichacking AT dagoneye PUNTO it (la leggiamo entrambi).

Qualche volta scriverò su Medium. Qualche volta lo farà anche Matteo. Se troviamo qualcosa di imperdibile, probabilmente lo tradurremo. Niente calendario editoriale, né obblighi a riguardo.

Il sito lo sistemeremo quando riusciremo a farlo.

Però. Finiremo il libro. Qualche mese fa, abbiamo ripreso in mano la bozza (alla sua seconda versione) e ci siamo accorti che possiamo fare di meglio: il nostro obbiettivo è fare giustizia al nostro manoscritto con un lavoro certosino nei prossimi due-tre mesi e poi ripartire da lì.


L'immagine di copertina è "hot air baloon" di jasoneppink rilasciata con licenza CC BY 2.0