Pubblicato originariamente su Il Colophon il 5 febbraio 2018.


In questo memoir del 2015 conosciamo Bebe, classe 1997. La sua vita si divide tra scuola, sport e amici. Il fatto che una meningite le abbia portato via un pezzo di gambe e gli avambracci è ininfluente: come tutti i diciottenni Bebe pensa alla patente, allo spritz, alle scarpe con i tacchi (che nel suo caso, implicano la creazione di protesi speciali). E alle Paralimpiadi “le Olimpiadi degli atleti con disabilità e si svolgono un mese dopo quelle degli sportivi normodotati. Che tradotto nella lingua di un malato di sport (e agonismo) come me, le Paralimpiadi sono il sogno della vita”. Perché Bebe è un’atleta paralimpica di fioretto. Prima della malattia, come molti “normo” (il modo in cui Bebe chiama i normodotati), Bebe non sapeva assolutamente nulla delle paralimpiadi, tirava di fioretto per sfogare la sua competitività: “sono una malata di agonismo e di podio […]. Quello che provo quando tiro non so spiegarlo fino in fondo. Mi sento gasata, determinata, carica, libera, piena di energia, concentrata, sempre pronta a dare tutta me stessa […]. Se esiste un colpo di fulmine anche per lo sport, io ne ho avuto uno con la scherma”. La scherma — e l’attività sportiva — sono solo una piccola parte della vita di Bebe. Seguendo il fiume di ricordi racchiusi in questo libro, il lettore è trasportato nella vita di una ragazza piena di energie, che sembra inarrestabile: tra scuola, scout, volontariato (ha fondato con i genitori un’associazione per la promozione dello sport per le persone amputate), discorsi motivazionali, impegni pubblici, appuntamenti al centro per le protesi, la vita di Bebe è una girandola in cui tutto è “normale”, anche se nulla lo è davvero. Vista con gli occhi “normo” Bebe sembra non avere nessuna difficoltà, nonostante le amputazioni. Perché, in questo libro, Bebe fa soprattutto questo: dimostrarci che le difficoltà sono tali solo se le consideri ostacoli. Sorniona, sembra dire ad ogni pagina: nessuno schermidore prima di me ha tirato senza mani? Vabbè, sarò la prima. Nessuno del mio gruppo scout è andato in uscita con una persona con disabilità? Vabbè, io imparerò e lo insegnerò agli altri (e, visto che ci sono, assisterò anche alla nascita di un vitello). Nessuno fa quello che faccio io? Vabbè, aprirò la strada.
Qual è la formula del successo di Bebe? La sua positività? La sua testardaggine? La sua competitività? A sentire lei no. O meglio, non solo. Questo libro-diario è un enorme grazie urlato a tutte le persone che le hanno permesso di arrivare dov’è. Dalla famiglia, ai medici, ai conoscenti, a chi le fa le protesi, agli sportivi della sua associazione, ai volontari che permettono all’associazione di crescere, ai suoi miti. Bebe utilizza queste pagine per ringraziare, più che per raccontare se stessa. Ringrazia anche per i momenti bui, per la malattia, per le cicatrici, per le opportunità, per le sconfitte, per le difficoltà. La malattia? Solo una tappa. Il fatto di essere inserita in una categoria di fiorettiste troppo forti per lei? Un contrattempo. Andare al mare e poter uscire solo dopo le sette di sera? Un’occasione per fare più grigliate.
E lo spritz? Bebe Vio è veneta (di Mogliano Veneto) e porta una certa idea di socialità ovunque si trovi; lo spritz (ma sarebbe stato più giusto che avesse scelto il caffè) non è solo un aperitivo, per Bebe è un modo di affrontare la vita: col sorriso e con gli amici (a cui lei permette di giocare anche con le proprie protesi). La socialità è forse la carta vincente dell’atleta: non solo nell’aiutare gli altri, ma anche nel creare relazioni, nel mettere in comunicazione mondi apparentemente distanti. Che si fa se gli atleti normodati hanno uno spazio caffè e gli altri solo una moka? La risposta di Bebe è il Be-bar: lei fa il caffè per tutti e, intanto, le persone chiaccherano, si conoscono, scoprono di non essere così diverse. Che si fa se al centro per le protesi i vecchietti si rifiutano di fare fisioterapia? La soluzione di Bebe è sempre in un caffè offerto come un cavallo di Troia nella coscienza del povero malcapitato (“arrivavo con il caffè, glielo lasciavo gustare e a quel punto non potevano più dire di no alla povera bambina in carrozzina che glielo aveva portato fino alla terrazza”). Circondarsi di persone che la motivano e motivare le persone che ne hanno bisogno, questa sembra la formula magica di Bebe, il modo per realizzare i propri sogni. “Che strani i sogni, vero? Non ci sono sogni che valgono per tutti, ma i sognatori invece si assomigliano tutti […]. Sono dei trasformatori, degli scultori del vento. I sognatori sono lottatori ma non te lo fanno pesare”.


Immagine di copertina: Joy VanBuhler287/365 – Magazines – Flickr CC BY NC ND